ilCatalogo - Rassegna di scrittori, poeti, grafici, pittori, fumettisti, fotografi - a cura de ilVignettificio
 
               

DECAMERON

Tradotto in lingua friulana


PRIMA GIORNATA

NOVELLA QUARTA

I L  F R A T E,  L'  A B A T E  
E  L A  C O N T A D I N A

Già si tacea Filomena, dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già, per l'ordine cominciato, che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare:

-- Amorose donne, se io ho bene la 'ntenzione di tutte compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere essere licito, e così ne disse la nostra reina, poco avanti, che fosse, quella novella dire che più crede che possa dilettare; per che, avendo udito per li buoni consigli di Giannotto di Civignì Abraam aver l'anima salvata Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli agguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi, intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo da gravissima pena liberasse.

Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, uno monistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie Potevano macerare. Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse figliuola d'alcuno de' lavoratori della contrada, la quale andava per gli campi certe erbe cogliendo; né prima veduta l'ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale. Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole e tanto andò d'una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se n'accorse.

E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con le' scherzava, avvenne che l'abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e per conoscere meglio le voci, chetamente s'accostò all'uscio della cella a ascoltare e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in ciò altra maniera e, tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse. Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio, a un piccolo pertugio pose l'occhio e vide apertissimamente l'abate stare a ascoltarlo e molto bene comprese l'abate aver potuto conoscere quella giovane essere nella sua cella. Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu do lente; ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne. E faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le disse: « Io voglio andare a trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente infino alla mia tornata. »

E uscito fuori e serrata la cella colla chiave, dirittamente se n'andò alla camera dello abate, e presentatagli quella, secondo che ciascuno monaco faceva quando fuori andava, con un buon volto disse: « Messere, io non potei stamane farne venire tutte le legne le quali io avea fatte fare, e perciò con vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire. »

L'abate, per potersi più pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente, e volentier prese la chiave e similmente li die' licenzia. E, come il vide andato via, cominciò a pensar qual far volesse più tosto, o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non avesser cagione di mormorare contra di lui quando il monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna. E, pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d'averla a tutti i monaci fatta vedere, s'avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prender partito; e chetamente andatosene alla cella, quel la aprì e entrò dentro e l'uscio richiuse. La giovane, vedendo venire l'abate, tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere.

Messer l'abate, postole l'occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora che vecchio fosse, sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti avesse il suo giovane monaco, e fra se' stesso cominciò a dire: « Deh, perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane, e è qui che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi saprà? ai più; io estimo che egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio ne man da altrui. »

E così dicendo e avendo del tutto mutato proposito da quello per che andato v'era, fattosi più presso alla giovane, pianamente la cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d'una parola in altra procedendo, a aprirle il suo desiderio pervenne. La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a' piaceri dello abate; il quale, abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non sopra il petto di lei salì, ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò.

Il monaco, che fatto avea sembiante d'andare al bosco, essendo nel dormentoro occultato, come vide l'abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato, estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro, l'ebbe per certissimo. E, uscito di là dov'era, chetamente n'andò a un pertugio, per lo quale ciò che l'abate fece o disse, e udì e vide. Parendo allo abate essere assai colla giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo al quanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la guadagnata preda; e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il riprese e comandò che fosse in carcere messo.

Il monaco prontissimamente rispose: « Messere, io non sono ancora tanto all'ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni particularità di quello apparata; e voi ancora non m'avavate mostrato che i monaci si debban far dalle femine priemere, come dà digiuni e dalle vigilie; ma ora che mostrato me l'avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare. »

L'abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma veduto ciò che esso aveva fatto. Perché, dalla sua colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva meritato. E perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero la giovinetta di fuori, e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare. -










   
PRIN DÌ

CUARTA STORIA

I L  F R A R I,  ’L  A B À T  
E  L A  C O N T A D I N U T A

Filomena a veva apena finìt di contà la so storia cuant che Dionèo, cal era sintàt dongja di ic, sensa spetà di vignì comandàt da la regina—e savìnt belzà che secònt’l òrdin stabilìt cal era rivàt il so turno—al à cussì tacàt a parlà:

—Siorùtis mes, se jò i ài ben capìt la nustra ’ntensiòn, i sìn dùcjus chì par contà stòris ch’a ni dèdin gust. Par chèl, e a pat di no diši alc che a chistu ghi zedi cuntra, i pensi che ognùn di nuàltris al vedi il dirìt (che di chèl la nustra regina a ni à puc fà siguràt) di contà la storiuta ch’a pos dani pì gust di dut. I vìn belzà sintùt di coma che par via daj consèis bòis di Zuanòt di Cuvignì, Abràm a si veva salvàt l’ànima, e Melchišedech protešùt al veva, ušànt il cjaf, ducju i so tešòrus da li pretèšis dal Paladìn. E alora, sigùr ch’i no vegnarèis a criticami, i vuej contavi di coma—e cun cuala granda prudensa—che un frari di claušura al era zùt a liberà’l so cuarp da na pena amondi granda.

A Lunigjana, un paìs no tant lontàn di chistu, al era na volta un monasteri pì plen di santitàt e di fràris di chèl di vuej. Un di scju fràris al era un zòvin plen di vita e frescjesa che nè dišùns nè vèis a podèvin cunsumà. Stu chì al steva na dì, sul misdì, cussì, par cašu, cjaminànt besolùt atòr da la glišia mentri che ducju i altri fràris a stèvin durmìnt. Esìnt alora’n ta stu post solitari, capitàt ghi veva di jodi na zovenuta, biela e ninina, fia forsi di cualchi contadìn dal post, ca zeva cà e là in sercja di èrbis. Apena joduda, stu frarùt a si veva a colp implenìt di na voja mata, na voja carnàl, po. A ghi era par chèl zùt dongja e tant tabajàt cun ic al veva di chista e di chist’altra monada, fin che, d’acordu cun ic, a ti la veva menada’n ta la so cjamaruta sensa che nisùn si vès necuarzùt.

E mentri che luj, sbalotàt da la so granda voja, a ti feva cun ic i so matièris, a veva ’ntivàt che’l abàt dal monasteri, pasànt davànt da la cjamaruta di stu frarùt, al veva sintùt il fracàs che scju doj a ti fèvin. Par sinti miej li vòus a si era sidìn sidìn visinàt a la puarta da la cjamaruta; e puc a ghi veva volùt par capì cal steva sintìnt vòus di fèmina, e al era par chèl stàt tentàt di vierzi a colp la puarta. Ma dopo vèjghi pensàt un puc ’mparzora, decidùt al veva di tornà’n ta la so cjamara e spetà che’l frarùt al vegnès fòu. Stu frarùt, se ben cal era dut indafaràt a gòdisi il so grant impegnu, al era lo stes sospetòus. Crodìnt di vej sintùt un strisinà di savàtis fòu da la puarta, al veva metùt’l vuli’n ta na sfešuta e a colp jodùt al veva’l abàt cal steva scoltànt. Capìt a volo che l’abàt al saveva adès par sigùr cal veva la zòvina’n ta la so cjamara, e savìnt che par chistu al sarès zùt a pajala cjara, a si veva na vura’mpensierìt. Lo stes, sensa par nuja fàjghi motu a la zovenuta cal era preocupàt, a si veva metùt a pensàjghi sù un bel puc par jodi s’al sarès stàt bon di gjavàsila fòu a la buna da stu intrìc. A la fin a ti trama na matetàt cal cròt ca ghi zovarà; e fašìnt motu di èsisi trategnùt cu la zovenuta abastansa timp, a ghi dìs: “I vuej zì a cjatà fòu coma che tu i ti pòsis zì fòu di chì sensa vignì joduda; cussì resta chì sidina fin ch’i torni ’ndavòu.”

Zùt fòu e sieràt la puarta cu la claf, al è zùt a colp in ta la cjamara dal abàt; indulà che cu la stesa scuša cal prešentava ogni frari cuant cal voleva zì fòu dal convènt, cul fà pì ’nocènt dal mont a ghi dìs: Messèr, stamatina i no soj stàt bon di fà vignì chì dut il legnàn ch’i vevi fàt meti’n banda; par chèl i domandi permès di zì tal bosc par sigurami cal rivi cà.”

Il siòr abàt, par podej èsi lìbar di cjatà fòu alc di pì su la malagrasia dal frarùt, e sigùr che stu chì a no si veva necuarzùt di èsi stàt spiàt, al era pì che contènt di lasalu zì, e cussì a ghi veva volentej dàt la claf e il permès di zì fòu. Apena che’l frarùt al era zùt via, al veva scuminsiàt a pensà a sè ca sarès tàt miej fà: vièrzi la cjamara dal frarùt e lasà che ducju chej altri fràris a jodèsin la so malagrasia, cussì che nisùn al varès cjatàt da diši cuant che dopo a lu varès castigàt; o pur zì a cjatà fòu da ic stesa coma ca era zuda la roba. E fra sè stes pensànt che chista a podeva forsi èsi la fia o fèmina di chel omp cussì cussì, e che luj a nol varès da vèjla fata vergognà in che maniera lì, davànt di ducju i fràris, al veva’nvensi pensàt di zì prima a jodi cuj ca era, e di decidi dopo. Cussì al era zùt sidinùt là da la cjamaruta. Ic a lu veva lasàt entrà e luj al veva sùbit sieràt la puarta davòu di luj. Al jodi vignì dentri stu superiòu, ic a no sà sè fà, e plena di vergogna a si mèt a planzi.

Cu na ocjada sù e jù a ghi veva volùt puc al siòr abàt par jodi ca era biela e frescja; e se ben cal era vecjòt al sinteva lo stes chel brušòu da la cjar cal veva sintùt il frarùt. E alora èco sè ca si veva metùt a pensà: “Jòt tu, parsè i no mi cjòiu chel plašej, dal momènt ch’i pòl cjòjmilu, e lasà che displašèis e fastìdis a si ràngjn besoj? Chista chì a è na gran biela zovenuta, e a no è nisùn in tal mont cal sà ca è chì. S’i pòl fà che ic a mi dedi gust, parsè i no varèsiu da falu? Cuj maj al vegnaràja a savèjlu? Nisùn a lu savarà maj, e un pecjàt platàt al è miès perdonàt. Na ocašiòn cussì a no mi capitarà maj pì: jò i cròt ca sedi na roba justa da fà di profitasi dal ben cuant che il Bondiu a ni lu manda.”

Cun stu pensej ca ghi zirava in tal cjaf, e avìnt dal dut cambiàt il propòšit che chì a lu veva partàt, a si visina a la fantata e al taca plan plan a dàjghi cunfuàrt e a preàla di no planzi pì. Da na peraula a n’altra, po, al era rivàt a fàjghi capì la so voja. A la zovenuta, ca no era nè fièr nè diamànt, a no ghi veva volùt tant par lasasi zì ai plašèis dal abàt. E chistu, dopo vèjla strucada e busada mil vòltis, e montàt cal era’n tal jèt dal frarùt, par rispièt cal veva pal grant pèis da la so dignitàt e pa l’etàt tinaruta da la zòvina, par timòu di no zì a ufìndila cun masa gravitàt, invensi di pojasi insima di ic al à lasàt che ic a montàs insima di luj; e cussì godìnt al à lasàt che’l timp al pasàs.

Il frarùt, intànt, che doma fenta al veva fàt di zì tal bosc, da lì che’nvensi a si veva platàt, al veva jodùt’l abàt zì dentri besòu’n ta la so cjamaruta. Da chèl al veva capìt che li ròbis a zèvin coma cal veva pensàt; e cuant che jodùt a lu veva sierasi dentri, po, al era pì che sigùr. Vignìnt fòu d’indulà cal era, sidìn sidìn a si veva metùt dongja di na sfeša da’ndulà cal podeva jodi e sinti sè che’l abàt al feva e diševa. Cuant che al abàt a ghi veva parùt di èsisi cocolàt abastansa cu la zovenuta, a ti l’à sierada in ta la cjamaruta e al è tornàt in ta la so cjamara. Dopo un toc, sintìnt il frarùt e pensànt che chèl al fòs apena tornàt dal bosc, a ghi veva vegnùt in mins di falu’mprišonà cussì da podej gòdisi besòu la preda apena otegnuda. Fàt clamà, a lu à cridàt cu la pì granda severitàt e gravitàt, ordinànt tal stes timp cal vegnès metùt in prešòn. (1)

Il frarùt, però, a ti veva rispundùt a colp: “Messèr, a è masa puc timp che jò i mi cjati sot dal Òrdin di San Benedèt par podej vej imparàt duti li finèsis dal Òrdin; e vu i no mi vèis encjamò fàt jodi che cu li fèminis a bišugna fà coma cuj dišùns e cu li vèis. Ma adès ch’i mi lu vèis dimostràt i vi promèt—si mi lu perdonàis—di no maj pì fà cussì, che ansi i vi promèt di fà sempri coma ch’i ài jodùt che vu stes i vèis fàt.”

Stu abàt, cal era un omp ben sveàt, al veva capìt a colp che stu chì al saveva li ròbis no doma pì di luj ma cal veva pur jodùt sè cal veva fàt. Par chèl, muardùt da la so stesa colpa, a si veva vergognàt di volej fàjghi al frarùt chèl cal varès meretàt ca ghi fòs fàt a luj stes. Cussì, dopo vèjlu perdonàt e racomandàt di no dìšighi nuja a nisùn di chèl ca era capitàt, a ti vèvin lasàt zì la zovenuta sensa che nisùn a la jodès; e a si pòl ben crodi ca la varèsin fata tornà’n tal convènt tanti altri vòltis.


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(1) Ogni convènt, a somèa, al veva la so prešòn interna.


Nota biobibliografica

ERMES CULÒS

Friulano di nascita, residente nella British Columbia, Canada.

Professione: Insegnante di lingua e letteratura inglese (da qualche anno in pensione).
Titoli di studio: Bachelor of Arts (Hons.English); Professional Development Program (PDP); Master of Arts (English).
Pubblicazioni:

La divina comedia (in friulano)
Don Chisciot da la Mancja (friulano)
Sancjo! (friulano)
(H)amlet in Furlàn (friulano)
Loves Mysteries (inglese; romanzo ispirato dalla poesia di John Donne)
Il Vanzeli di Mateo (traduzione in friulano del Vangelo di Matteo, in formato bilinguale in diverse lingue)
Cjaminànt cun Lolli (friulano; riflessioni su ciò che è di più significativo nella vita di un cane e di un uomo, specie di un friulano in esilio)
Singing with Lolli (stessa cosa, ma in inglese)

In preparazione (fra l’altro): opera di traduzione (comparativa) di diverse novelle del Boccaccio e del Chaucer.

Un riconoscimento: I cani di Ermes (Lolli e Loko) e i suoi gatti (Sismica, Puccini, Mozart, Machiavelli e Pagliacci) — senza parlare delle sue tortorelle, del suo piccione PJ, e delle sue galline — si rodono i denti e i becchi dall’invidia per tutto il tempo che egli dedica allo scrivere invece di dedicarlo a loro. Sanno lo stesso, comunque, che restano per lui una gran fonte di ispirazione.


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